Nell’orbita terrestre bassa, ogni giorno migliaia di frammenti di detriti spaziali sfrecciano a velocità superiori a quella di un proiettile. Per i satelliti che popolano questa regione, il rischio di collisione è tutt’altro che ipotetico: tra il 2019 e il 2023, la sola costellazione Starlink di SpaceX ha dovuto eseguire oltre 50.000 manovre di evitamento per schivare possibili impatti. In risposta a questa minaccia crescente, un gruppo di scienziati dei materiali della Texas A&M University ha sviluppato un materiale straordinario: un polimero capace di autoripararsi dopo l’impatto, riducendo il rischio di danni permanenti alle infrastrutture spaziali.
Il polimero “autoriparatore” per proteggere i satelliti dai detriti spaziali
Il cuore di questa innovazione è il cosiddetto polimero di Diels-Alder (DAP), così chiamato per la struttura chimica che lo caratterizza: una rete dinamica di legami covalenti capaci di rompersi e riformarsi in risposta a calore e forza meccanica.
Questo materiale, ancora in fase sperimentale, è stato sottoposto a test balistici altamente sofisticati che ne hanno rivelato la natura resiliente e adattiva. Alla base c’è una struttura a lunghe catene polimeriche con doppi legami carbonio-carbonio: sotto stress elevato, questi si spezzano, ma si ricompongono rapidamente al raffreddamento, spesso in una configurazione diversa ma altrettanto stabile.
Sebbene in letteratura esistano altre varianti di Diels-Alder, il lavoro del team texano rappresenta una prima assoluta per la combinazione tra flessibilità meccanica e capacità di recupero.
Il test estremo con proiettili al laser
Per mettere alla prova la robustezza del DAP, gli scienziati hanno utilizzato una tecnica nota come LIPIT (laser-induced projectile impact testing). In questo test, un minuscolo proiettile di silice – con un diametro di appena 3,7 micrometri – viene sparato contro il materiale bersaglio grazie all’energia di un laser.
L’impatto viene registrato da una telecamera ad altissima velocità, con intervalli temporali di appena 50 nanosecondi. Inizialmente, il team ha pensato che i proiettili avessero mancato il bersaglio, poiché non si osservava alcun danno visibile. In realtà, avevano appena scoperto che il materiale si liquefaceva temporaneamente per poi ricomporsi, lasciando solo un microscopico foro.
Il meccanismo è sorprendente: il polimero assorbe gran parte dell’energia cinetica, si allunga, si scioglie, consente al proiettile di attraversarlo e infine ritorna allo stato solido, riformando i legami molecolari. È come se il materiale “dimenticasse” l’urto subìto, tornando alla forma originale.
Dalla protezione contro i detriti spaziali ai giubbotti antiproiettile
Il potenziale di questo materiale va ben oltre le applicazioni spaziali. Secondo gli autori dello studio, pubblicato su Materials Today, le proprietà del DAP potrebbero essere sfruttate anche in ambito militare terrestre, per esempio nella produzione di giubbotti antiproiettile. Come spiega uno dei ricercatori, il materiale presenta una straordinaria gamma di comportamenti termici: “A basse temperature è rigido e resistente; a temperature più alte diventa elastico; e a temperature ancora superiori, si comporta come un liquido fluido”.
Questa versatilità potrebbe renderlo utile in ogni contesto in cui la protezione da impatti violenti è cruciale. Tuttavia, i test condotti finora sono limitati alla scala nanometrica: resta ancora da verificare se lo stesso comportamento possa essere replicato su strutture più grandi e complesse. Il team sottolinea infatti la necessità di ulteriori studi prima di poter tradurre questi risultati in applicazioni pratiche.