Nel cuore del progetto ITER, il più ambizioso esperimento di fusione nucleare al mondo, si sta preparando una svolta cruciale per migliorare la stabilità e l’efficienza del plasma. Dopo aver deciso di sostituire il rivestimento della camera del plasma da berillio a tungsteno — un materiale più resistente ma potenzialmente fonte di impurità — gli scienziati hanno messo a punto una nuova tecnologia chiamata boronizzazione. Questo processo innovativo, che consiste nell’applicare un sottilissimo strato di boro sulle pareti del reattore, promette di ridurre le contaminazioni e di mantenere il plasma più puro e stabile, affrontando così una delle sfide più complesse della fusione controllata su larga scala.
ITER e la boronizzazione: un salto tecnologico per la stabilità del plasma
Con la fase di modellazione iniziale ormai quasi completata e i primi progetti definiti, il team di ingegneri e scienziati del totamak ITER sta adattando una tecnologia già collaudata, ma mai sperimentata su questa scala e in un ambiente triziato così complesso. Questo processo riguarda un nuovo sistema di condizionamento delle pareti, chiamato boronizzazione, introdotto a seguito della scelta del 2023 di sostituire le piastrelle protettive della camera del plasma: dal berillio si è passati al tungsteno, un materiale più resistente ma che può aumentare le impurità nel plasma.
La boronizzazione consiste nell’applicare uno strato estremamente sottile di boro — spesso tra i 10 e i 100 nanometri — su tutte le superfici a contatto con il plasma. Questo strato funge da “getter”, ovvero cattura l’ossigeno presente, uno degli elementi responsabili di perdite radiative e potenziali instabilità soprattutto nelle fasi iniziali di scarica del plasma.
Tecnologia e design del sistema di boronizzazione
Stando a Interesting Engineering, il cuore della nuova tecnologia si basa sull’uso del diborano, un composto chimico formato da idrogeno e boro. Il processo prevede l’iniezione di una miscela contenente il 5% di diborano in elio come gas vettore, all’interno del tokamak. Qui il diborano si decompone, depositando il boro sulle pareti attraverso una tecnica detta glow-discharge-assisted, che utilizza un plasma freddo per legare chimicamente il boro ai materiali superficiali.
Il design preliminare del sistema di iniezione è estremamente articolato: più di un chilometro di tubazioni corre dentro l’edificio del tokamak, con altri 400 metri di linee nel vano del reattore stesso, e ben 21 punti di iniezione distribuiti strategicamente. Questa infrastruttura complessa permette una copertura uniforme e controllata, essenziale per l’efficacia del trattamento.
Secondo gli esperti, l’installazione di questo sistema non dovrebbe rallentare la sequenza complessiva di montaggio e messa in opera dell’impianto, un dettaglio importante in vista dei tempi serrati del progetto ITER.
Collaborazione internazionale e sfide progettuali
L’adattamento del glow discharge cleaning — già previsto per le operazioni di manutenzione di ITER — alla frequente applicazione della boronizzazione ha posto due grandi sfide. La prima riguarda la compatibilità del design dell’anodo ad alta energia con i cicli ripetuti, un aspetto che verrà testato nel tokamak EAST in Cina. La seconda sfida è stata la posizione ottimale degli anodi per garantire una distribuzione omogenea del boro su tutta la superficie.
Per superare questi ostacoli, è stata fondamentale la collaborazione internazionale. Esperti del progetto ITER hanno lavorato a stretto contatto con colleghi della International Tokamak Physics Activity, con test e simulazioni condotti anche sui tokamak ASDEX Upgrade (Germania) e WEST (Francia). Questa sinergia ha portato alla decisione di inserire quattro anodi aggiuntivi nel vuoto del reattore, migliorando notevolmente l’uniformità della copertura di boro.
Frequenza operativa e aspetti di sicurezza
Una volta definito il design, sono state affrontate anche questioni operative di rilievo, come la frequenza ideale per la boronizzazione. Studi recenti suggeriscono che un singolo trattamento possa mantenere la sua efficacia da 2,5 fino a 12,5 settimane. Perciò, la strategia pianificata prevede una boronizzazione al massimo ogni due settimane, per assicurare la migliore protezione possibile.
Dal punto di vista della sicurezza, il diborano è un gas altamente tossico e infiammabile, che richiede precauzioni molto rigide. Sarà conservato in una cabina protetta, detta “gas cabin”, posizionata fuori dall’edificio diagnostico. Inoltre, qualsiasi diborano non decomposto dovrà essere neutralizzato per evitare rischi. A questo scopo, sono allo studio due metodi: il riscaldamento termico del gas a 700°C per decomporlo, oppure l’utilizzo di un filtro chimico proprietario capace di intrappolare e distruggere il composto residuo.
“Siamo molto fiduciosi in entrambi i sistemi“, ha concluso Peter Speller, l’ingegnere che supervisiona il trattamento con diborano, osservando che entrambi i metodi sono stati utilizzati con successo in altri tokamak. Con una strategia a lungo termine definita e lo spazio creato nell’edificio Tritium per il sistema di rimozione del diborano, il progetto è sulla buona strada per l’inizio dell’installazione nel 2028.